sabato 30 agosto 2008

NINO G. D'ATTIS SU ACIDO (www.blackmailmag.com)

Nino G. D'Attis (come Claudio G. Fava) sa il fatto suo. Siamo sulla stessa lunghezza d'onda. Anche se tra le sue patologie non figura l'Agonismo Edonistico PeterPaniano, come emerge dalla recensione. E' tra i fondatori di BlackMailMag la prima web-fanzine che mi ha dato fiducia prima come recensito poi come recensore. Nino ha esordito per Marsilio con MONTEZUMA AIRBAG YOUR PARDON, a giorni per lo stesso editore esce MOSTRI PER LE MASSE. Tremate. D'Attis è tornato a infestare di demoni un paese in pace, popolato da nani da giardino, schermi ultrapiatti e pizze da asporto.

Questa è la rece:

Lo sport non mi interessa. Negli anni d’oro di Ayrton Senna andavo ad Imola a tifare McLaren, a consumare costolette di maiale e mignon di whisky alle cinque del mattino sulla Tosa o sulla Rivazza, poi finì anche quello. Mi piace la boxe. Mi piace il biliardo. Mi piace il bowling. Mi piace il motocross. Tutto il resto mi fa sbadigliare. Faccio questa premessa per dire che sulla carta non sarei stato la persona più adatta a leggere e recensire il terzo romanzo di Saverio Fattori. Non seguo il calcio, dipendesse da me gli stadi dovrebbero ospitare solo concerti rock dei miei gruppi preferiti e se vedo migliaia di cinesi in fila davanti al botteghino del Centro Olimpico di Pechino mi metto a sghignazzare. L’Atletica Leggera? Ma non è meglio saltare in sella a una Mv Agusta Brutale 910 R, dare gas e vedere quanto ci mette la bestia quattro cilindri in linea a fare Leuca-Cuneo? Poi però mi metto a leggere articoli che dicono: “Se verrà il sospetto che delle atlete "donne" non dovessero essere tali durante le Olimpiadi di Pechino sarà in funzione uno specifico laboratorio che sottoporrà le sportive alla prova dell'identità sessuale.” Oppure: “Olimpiadi di Pechino, sono aria e cibo gli incubi degli atleti in gara”. Questo ha a che fare con gli esseri umani. È un argomento che mi affascina e che colpisce la mia fantasia. Aprendo il nuovo libro di Fattori mi sono venute in mente due cose. La prima è una frase di Jean Baudrillard, il mio filosofo prediletto: “Il corpo è vezzeggiato nella perversa certezza della sua inutilità, nella totale certezza della sua non resurrezione.” La seconda è che l’autore emiliano di Alienazioni padane, Chi ha ucciso i Talk Talk? e Cattedrale (pubblicato a puntate sulla rivista Carmilla) ha nelle sue corde una rara predisposizione a costruire drammi allegorici sulla condizione umana, sul nostro destino e la nostra inutilità.

La solitudine, l’instabilità delle cose terrene, l’elemento comico che si fonde con quello tragico, sono al centro anche della vicenda di Claudio Seregni, atleta.

“Seregni Claudio cerca un pensiero pulito. Deve concentrarsi su numeri, prestazioni cronometriche da raggiungere, le date delle prossime gare.”, leggiamo nell’incipit. Claudio Seregni si ammazza di allenamenti e sopporta (male) un carico di rancore verso gli altri. È un uomo che prende appunti minuziosi sui fallimenti degli altri, sulle meteore dell’ambiente sportivo. Tutte le promesse mancate, tutto il potenziale disperso delle giovani speranze dell’agonismo sono il suo nutrimento. È razzista, Seregni. All’inizio del romanzo insulta un magrebino e la sua ragazza, poi salta giù dall’autobus e si mette a correre come un vigliacco dotato di buone gambe. La sua arroganza è quella di chi vive ogni incontro, ogni situazione come un potenziale detonatore: “Quando un estraneo mi chiede che lavoro faccio, con una sobria aria di superiorità sul mio interlocutore, dico: i cinquemila. Mi compiaccio di quei secondi di imbarazzo e curiosità e attendo la replica. Cosa fai? Corro, sui cinquemila metri ho ottenuto i risultati migliori. Atletica! Fantastico! Gli anelli, il corpo libero! No, quella è la ginnastica, ho detto che corro. Atletica leggera. E ti pagano? Non abbastanza. Beh, non è mai abbastanza, ma fai una cosa bellissima. Non ho le ferie e nessuna forma di previdenza, corro dodici mesi all’anno, in genere due allenamenti al giorno, se ho un infortunio e non posso gareggiare si fa pesante, non corro per un gruppo sportivo militare, la mia società mi passa un mensile fisso ridicolo. Capisco. Non credo.”

Ambizione: ecco di cosa parla Acido lattico. Con schiettezza ed anti-buonismo, con un andamento a spirale limpido e secco, Fattori mette a fuoco l'angoscia di non farcela a diventare qualcuno, di rimanere intrappolati nell’orrido purgatorio dei “non ancora”. Messo a nudo davanti alle sue inquietudini, l’animale uomo non è più una gazzella ma un tossico impantanato in quei buoni propositi che a lungo andare sono diventati smania, delirio, gravosa ossessione.

L’atletica leggera non è lo sport che va per la maggiore in una nazione di pallonari. Nell’atletica leggera, quando le Olimpiadi si profilano all’orizzonte, devi dannarti l’anima se vuoi essere notato. I protagonisti sono gli altri. Gli altri possono rubarti facilmente la scena, estrometterti, renderti ombra tra le ombre di un’avvilente nullità. È a questo che pensa Seregni Claudio mentre chiede al suo corpo di non arrendersi a ogni sofferenza, al più irrevocabile declino.

Scritta magistralmente, con la stessa ricchezza di particolari e profondità di esposizione che caratterizzavano le prove precedenti, l’ultima opera di Saverio Fattori è grande narrativa dal contenuto amaro e spietato. Come lo sport, come la vita reale.



Nino G. D’Attis

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domenica 24 agosto 2008

GIROLAMO DE MICHELE SU ACIDO (LIBERAZIONE)

Girolamo De Michele è redattore di Carmilla, e-magazine diretto da Valerio Evangelisti, tra i più seguiti del web (www.carmillaonline.com). Scrive di filosofia e critica letteraria su diversi giornali, e ha pubblicato saggi di filosofia e ricerca storica. Per Einaudi Stile Libero sono usciti i suoi romanzi TRE UOMINI PARADOSSALI (2004) e SCIROCCO (2005) e il recentissimo LA VISONE DEL CIECO.

La rece di sotto è uscita su Liberazione di venerdì 22 agosto 2008.


«Centoventi uova sbattute al muro, solo quelle che non si rompono diventano pulcini di campione. Il resto è frittata, iscritti alla maratona di New York nelle mani di astuti Tour Operator». È questa l’impietosa istantanea dello sfondo su cui galleggia la punta mediatica dell’atletica agonistica secondo Saverio Fattori, giunto con Acido lattico (Gaffi, 2008, 158 pp., € 11,00) alla sua terza prova, dopo l’esordio di Alienazioni padane e il feroce ritratto degli anni Ottanta di Chi ha ucciso i Talk Talk?
Scrittore “informato dei fatti”, corridore amatoriale («non va né piano né forte. Va»), Fattori adotta alcuni stilemi tipici del nuovo neo-realismo dell’ultima generazione letteraria (la situazione dispersiva, le relazioni precarie, la forma-passeggiata) per raccontare la vita risucchiata dall’«inferno della perfezione inutile» di Claudio Seregni, l’io narrante che cerca l’evasione dalla medietà insignificante della propria esistenza nella realizzazione di un corpo da olimpiadi. La scelta di questo io narrante che non può permettersi codici etici, che accetta senza remore la spirale prestazione-doping può sembrare spiazzante, soprattutto quando siamo costretti, tirati dentro il romanzo, a confrontarci con la sua mentalità fascistoide negli scampoli di vita quotidiana, ma soprattutto nella dimensione agonistica: «È profondamente ingiusto che un atleta si ammali. Il suo organismo ha retto e riprodotto prestazioni fuori dalla norma e non può cedere minato dagli stessi agenti patogeni che debilitano l’umanità media». Una mentalità adeguata all’ambiente sportivo irritato dalla supremazia degli atleti di colore che abbattono i record, ma non sono amati dagli sponsor: «Vanno come treni, ma non s’impigliano nell’immaginario collettivo. La gente fatica a distinguerli uno dall’altro. Per forza vincono, sono africani. Sono negri. O quasi». Ma proprio qui sta il punto di forza del romanzo: come nelle precedenti opere (ma anche in Cattedrale, una sorta di Bowling a Columbine in una fabbrica padana che sta pubblicando sulla rivista on line “Carmilla”), Fattori ha la capacità di portare il lettore in un mondo gelido, pervaso da relazioni deboli e fittizie, e lasciarlo senza il supporto di una morale consolatoria o di un finale edificante. La costruzione di un corpo perfetto ha come prezzo la recisione delle relazioni affettive, il disinteresse per l’altro, la rinuncia al piacere, la progressiva crescita della paranoia (uno dei topos narrativi di Fattori): un mondo alienato, popolato da alienati, prodotto da relazioni e pratiche alienanti. Un mondo postfordista, dove il paradigma della fabbrica, della precarietà, della guerra di tutti contro tutti si estende all’intera società, senza lasciare angoli immuni. Un mondo che non vediamo in televisione dietro i servizi sulle Olimpiadi, pervaso da una microfisica del controllo, della misurazione e quantificazione di ogni gesto, dell’occupazione della mente da parte di un’ossessione totalizzante: «L’atletica ha un potere narcotico. E si prende tutta la mia vita, il resto è corollario al punto centrale: il giorno della gara». Il mondo delle corse di provincia dietro l’illusione di una convocazione alle Olimpiadi, dei medici che utilizzano gli atleti come cavie - «Pechino 2008 è lastricata di pezzi di merda» - è il correlativo oggettivo di una realtà puntuamente descritta, ma anche allegoria potente della società del controllo, della pervasività di un micropotere che giunge sino alla vita stessa, e il cui artefice è il soggetto stesso, che passo dopo passo costruisce se steso con feroce determinazione: «L’espressione che più detesto è vado contro natura: L’adattamento all’usura organica aumenta la parte liquida del sangue e ammazza i globuli rossi. L’Epo ristabilisce il numero dei globuli rossi, visto che la natura lasciata sola fa cazzate, avara com’è». L’Epo è il terzo farmaco più diffuso dopo l’aspirina e il valium: una realtà che non si spiega con i soli atleti professionisti, che coinvolge praticanti semi-amatoriali, corridori della domenica, palestrati d’ogni tipo. «Qualunque persona con un’intelligenza media sa che un atleta professionista di uno sport serio è praticamente un tossicodipendente», afferma il narratore, lasciando intendere che per gli ultimi corridori “puliti” bisogna risalire ai tempi di Donato Sabia e Stefano Mei: ma dietro i grandi atleti, risultato finale di una pratica medica accettata ancor più che tollerata, c’è la massa delle cavie che sgomitano all’interno di un mondo che concepisce la pratica sportiva solo come selezione senza appello per quelli che «ai primi ostacoli si sono disgregati, non hanno retto alle piccole delusioni dei cambi di categoria, agli infortuni dovuti all’aumento dei carichi di lavoro, ai raduni collegiali. Non hanno voluto recidere legami di amicizia, amorosi o familiari. Sul piatto hanno lasciato pochi resti e hanno mollato». A qualcuno è andato anche peggio: ad esempio a Fulvio Costa, giovane mezzofondista di talento «che nell’82 crepò in un letto d’ospedale dopo il morso d’un cane, qualche giorno dopo l’antitetanica. Contemporaneamente qualcuno iniziava cavalcate mondiali e olimpiche. Svuotati di sangue proprio per reintrodurselo arricchito, o comunque privo delle tossine di mesi di allenamenti. Pulito. Troppo pulito. Ripulito anche di anticorpi. Qualcuno crepava e qualcuno volava, braccia segaligne al cielo, occhi nerissimi, spiritati, il solito delirio di onnipotenza». Chi ha orecchie per intendere può farlo: per gli altri c’è la favola del campione cresciuto a pastasciutta e dei medici che giungono ai vertici dello sport e dell’Università: «La valigetta conteneva ampolle sacre, sangue benedetto. A pochi giorni dalla gara il miracolo si compiva nel rito della trasfusione. L’emoglobina accendeva di nuovo le cellule che impazzivano ordinate. Quattro, cinque giorni dopo, i media avrebbero onorato un nuovo campione. Il nuovo campione con le medaglie al collo avrebbe ringraziato i carboidrati, le lasagne della mamma».

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venerdì 22 agosto 2008

ALESSANDRO VICENZI SU ACIDO (BUONI PRESAGI)

Alessandro Vicenzi ha un blog che seguo regolarmente ( http://buonipresagi.splinder.com/ ) , il fatto che abbia colto l'uscita di Acido non può che farmi piacere. Considerando la mole di uscite editoriali...

Dopo l’escursione negli anni ottanta e la paranoia complottista di “Chi ha ucciso i Talk Talk?” Fattori si dedica al mondo dell’atletica. Amena lettura in questa estate olmpica, “Acido Lattico” è un romanzo che parla di quel grado zero della fatica che è la corsa e del modo in cui la scienza moderna corre incontro agli atleti per aiutarli a sopportare meglio gli sforzi. Al costo, chiaro, di alcuni sgradevoli effetti collaterali. Ma parla anche delle storie (vere) di giovani promesse che si sono perse per strada per i più disparati motivi e, più in generale, della vita degli atleti professionisti. Scritto con una voce alienata e ossessiva, “Acido Lattico” ricorda, per l’insistenza sul corpo e sulle sue mutazioni, alcune cose di Palahniuk. Secondo la bandella sarebbe un “noir”, ma non sono molto d’accordo. Forse lo è per la descrizione di un mondo in cui l’innocenza sembra essere stata bandita, ma direi che incasellarlo in un genere sia abbastanza difficile (come con il 90% dei libri, in fondo). Un bel libro, comunque, più che utile per intuire che cosa ci sia dietro allo scintillio olimpico di questi giorni (scrivo mentre il tg1 dedica metà del suo tempo alla retorica olimpionica).

martedì 19 agosto 2008

TRACCIA FANTASMA DI ACIDO SU "IL GIORNALE"

Stefania Vitulli de "Il giornale" mi ha chiesto un racconto per l'edizione domenicale, hanno iniziato un ciclo di narrazioni sul tema fisso milano-noir. Nelle domeniche precedenti erano uscite cose di Ferrario, Matrone, Montolli, Roversi. Ho pensato subito a un racconto costola di Acido. Una storia fuoriuscita da quelle pagine. Non poteva essere che così, sono ancora "sotto Acido". Il racconto è corredato dall'immagine di un'opera originale di Barbara Nahmad, pittrice milanese molto interessante. Ha già esposto al PAC di Milano, Londra, Berlino, Rotterdam, Tel Aviv.

Questo di sotto è il racconto uscito domenica 10 agosto. Lo hanno intitolato "DELITTO AL FOTOFINISH".

Un asciugamano copre le spalle del vincitore, qualcuno gli mette in testa un cappellino con il logo di uno sponsor. È un atleta bianco, quasi pallido, nessuna vena intarsia la fibra muscolare, la pelle non è carta velina su nervi pronti a generare elettricità. Un esemplare di umanità media ha addome-sticato la pattuglia di maratoneti africani. Nei primi chilometri ha stupito punteggiando la nuvola nera di bianco, il telecronista con voce isterica ha ipotizzato un miracolo, temendo il troppo ardire. Poi il sogno si è fatto concreto, i riferimenti cronometrici di assoluto livello mondiale reiterati a o-gni chilometro. Senza cedimenti. Allo scoccare delle due ore precise di corsa ha lasciato i due etiopi compagni di avventura. Si è involato verso Piazza Duomo come un demonio. Otto minuti e trentatrè secondi di solitudine cristallina. La vertigine della perfezione atletica. La fantascienza della norma-lità. È quello che la giornalista bionda voleva. Un vincitore bianco che parla italiano. Stanca di gaz-zelle degli altipiani dall’inglese incerto e dalla semplicità disarmante. L’audience pretende la com-plessità occidentale. Le parolacce dei motociclisti ragazzini o il semianalfabetismo di calciatori mi-liardari. Il nostro immaginario lascia scorrere i volti degli atleti neri senza trattenerli, non rimango-no impressionati nella pellicola. I loro tratti, i loro nomi… sembrano tutti uguali. La loro età, un mi-stero indefinibile che non incuriosisce. È una forma di razzismo atavico che nemmeno i condizio-namenti culturali riescono a espellere. Non c’è immedesimazione con il vincitore e i grandi sponsor stanno abbandonando l’atletica. Fanno imprese incredibili. Per forza. Sono africani. Andavano a scuola a piedi, niente autobus. Inseguiti dai leoni. Raggiunti dalla nostra ignoranza. Ci ricordano troppo la fame e la miseria che in Occidente è solo vergogna, nemmeno rabbia.
Le statue d’ebano fanno imprese fantascientifiche che solo gli addetti ai lavori riescono a compren-dere nella loro grandezza, ma non si impigliano nell’immaginario collettivo. Il loro gesto atletico è arte finita, non prevede sottotitoli, né giustificazioni di critici marchettari. Esige il silenzio. Nessuna epica affidata alla parola. E noi abbiamo bisogno di fruscio, rumori di fondo, di anedottica da Bar Sport. Non di sport. Era più forte Pelè o Maradona. Coppi o Bartali. Altro che pregiudizi. Dovreb-bero essere loro a ostentare superiorità. Per la nostra goffaggine. Per i nostri ventri flaccidi. Per le nostre beauty farm. Per le creme anticellulite. Per i personal trainer. Per la taglia quarantasei.
L’atleta bianco ha il viso affusolato e gli occhi neri che si perdono nel gorgo dei quarantadue chi-lometri corsi nell’hinterland milanese. Occhi neri che però luccicano, sopra due ipotesi di guance, risucchiate da estenuanti sedute di allenamento. Milano è una città astiosa, non sopporta i blocchi stradali, prende a colpi di clacson e offende anche i partecipanti più veloci, figurarsi i tapascioni che si trascinano per ragioni misteriose in quell’agonia inutile. Milano non comprende quella dispersio-ne di energia. Milano non ha pietà. Perché deambulare in mutande e canottiera sulle strade di una metropoli occidentale? Non ci sono i tapis roulant con televisore incorporato?
La giornalista bionda tira i cavi del microfono, dà ordini secchi ai tecnici RAI che la maledicono in silenzio. Pare innocua.

- Un risultato che ti proietta verso le prossime olimpiadi. Chi devi ringraziare?

- La mia famiglia che mi ha sempre sostenuto, mia moglie che aspetta un figlio. Il mio allenatore.


Che ne è della complessità occidentale? La fatica sana e assoluta dello sport aerobico ai massimi li-velli asciuga fisico e pensieri. Tutto è ridotto all’essenzialità. Alle sensazioni atletiche, alla pragma-ticità del cronometro. Tutto è pulizia, candore. Le variabili, le scorie del masochismo intellettuale sono dirottate da qualche parte nel buco del culo dell’universo. Lo sport professionistico ha bisogno di tranquillità. Di controllo. Ma qualcosa deve sempre inquinare le favole a lieto fine, sporcare la felicità. La giornalista bionda è perfida.


- Allenatore che di recente è stato sostituito.

- Nulla di personale. Ragioni tecniche.

- Non possiamo però ignorare la vicenda che ti ha coinvolto nei mesi scorsi…

- La mia società mi ha assicurato la massima fiducia. Sono stato completamente riabilitato. Anzi non sono stato mai in discussione come atleta e come persona.

- Ma le intercettazioni telefoniche… l’inchiesta della procura…

Il maratoneta sembra un furetto, la voce si rompe, l’emotività buca l’orgoglio, la tensione del dopo gara allenta, sembra tramortito e nervoso al tempo stesso. Non avevano concordato questa doman-da. Ricorda tutto in un flash di pochi attimi. Il pusher della palestra non sapeva nulla di atletica leg-gera. Pensava che l’unica maratona al mondo fosse quella di New York. I suoi commenti assurdi. Le iniezioni di GH così complicate da eseguire, gli effetti secondari del testosterone graditi alla mo-gliettina. Ricorda la sensazione di onnipotenza e forza ridotte a stracci quando il suo nome si è ma-terializzato nelle agenzie di stampa. Ricorda l’avviso dalla Procura, la carta bollata che è già colpe-volezza.
La giornalista stronza poteva evitare il tranello nel giorno della sua rinascita atletica. È uscito da un incubo, la sospensione cautelare della Federazione, un obbligo di dimora imposto dalla Procura. Ha sconfitto il senso di impotenza. La depressione che indebolisce l’organismo come nessun virus, che mina le difese immunitarie. Il baratro dell’umiliazione. Un atleta professionista ha bisogno di sere-nità. Non deve rispondere alla domande di un pubblico ministero. Le agenzie di stampa sintetizza-vano la sua tragedia in poche righe velenose che rimbalzavano di giornale in giornale. Fino ai TG. Aveva pensato a tutto in quei giorni. Anche al suicidio. Il silenzio del suocero, il suo primo fan, po-dista da mezzo secolo.
Gli amatori del suo paese di origine gli avevano dato la forza, lo invitavano a uscire e a riprendere gli allenamenti. Era stata dura raccogliere la concentrazione, l’abitudine alla fatica. La giornalista bionda è peggio delle ripetute in salita. È confuso, potrebbe annegare, ma di colpo riacquista lucidi-tà.

- Solo maldicenza. Non sono mai risultato positivo a nessun controllo. Ho subito l’affronto di una perquisizione in casa. Nemmeno le aspirine hanno trovato. Mi curo con l’omeopatia. Figuriamoci se vado a rovinarmi la salute.

Omeopatia. Fiori di Bach? Propoli? Per correre quarantadue chilometri quasi ai venti di media. Per recuperare tre allenamenti al giorno, duecentoventi chilometri alla settimana. Per battere keniani, etiopi.
Per vivere sereni.

www.ilgiornale.it/pag_pdf.php?ID=84133

lunedì 18 agosto 2008

MARCO TAROZZI SU ACIDO (IL DOMANI DI BOLOGNA)

Marco Tarozzi, classe 1960, dopo una lunga collaborazione con il “Corriere dello Sport-Stadio”, ha lavorato alla rivista “Calcio 2000” ai tempi della direzione di Marino Bartoletti. Oggi è caposervizio e responsabile del settore sport del quotidiano “Il Domani di Bologna” e collabora all’edizione italiana della rivista "Runner’s World". A vent’anni correva sulle piste d’atletica (3000 in 8'39", 5000 in 14'54", maratona - l'unica della sua vita, a 21 anni - in 2:41:37). A quaranta ha oltrepassato l’oceano per la prima volta, per emozionarsi nei luoghi dei suoi miti: dall'Oregon di Steve Prefontaine al New England di Jack Kerouac. Ha pubblicato "I canestri della Sala Borsa, storia e gloria del basket bolognese del dopoguerra" (Minerva Edizioni, 2004), "La leggenda del Re Corridore - Vita breve di Steve Prefontaine" (Bradipolibri, 2006), "Semplicemente Magnifico - Vita tra i canestri di un gigante del basket italiano" (Minerva Edizioni, 2008). Ha vinto il premio letterario "Giovannino Guareschi" nel 1997. "Premio Coni-Ussi 2004" per il giornalismo sportivo bolognese, nel 2008 si è classificato terzo al concorso giornalistico nazionale "Le Ali del Pirata", promosso dalla Fondazione Pantani, dietro a Marco Pastonesi e Beppe Conti.


Amo l’atletica e ne faccio un noir
«In “Acido Lattico” c’è un po’ di me, ma un romanzo non è un diario»


Marco Tarozzi

Saverio Fattori vive a Molinella. Immerso nei colori e negli umori della Bassa, corre e scrive. Meglio: ha altre attività, tra cui quella che lo occupa “in una fabbrica padana” e gli assicura il salario. Ha certamente altri interessi. Ma una cosa è il lavoro, altra il mestiere. E noi, di Saverio, vogliamo raccontare il mestiere di scrivere, oltre a quella passione per la corsa e l'atletica che ne fa uno sportivo vero, praticante. Doveva succedere che le facesse incontrare, queste passioni forti. Doveva arrivare, dopo prove letterarie finissime (“Alienazioni Padane” e “Chi ha ucciso i Talk Talk”), un romanzo che si addentrasse nei meandri dell'atletica. Ora c'è, si chiama “Acido Lattico” e corre su una pista nera. C’è di mezzo un mezzofondista di alto livello, che coltiva il suo sogno olimpico con egoismo e sospetto verso il prossimo, con una pulsione irrefrenabile a cercare nelle riviste e nei libri d'atletica le storie di altrui fallimenti. Quando all’orizzonte si delineerà il suo, sarà allo stesso tempo un inizio di redenzione. C’è di mezzo, anche, una storia di scorciatoie farmacologiche proposte e accettate per arrivare al successo, di depressioni da illusione e abbandono. C’è di mezzo il suicidio di una giovane atleta che il protagonista ha appena approcciato nel magma incandescente della rete, e di cui pure si farà carico cercando ragioni, quasi indagando. Tutto questo per chiarire che “Acido Lattico” è un libro splendido e talvolta difficile da interpretare. Difficile, per dire, è pensare che Saverio Fattori, buon interprete dell'atletica (corre nella categoria Amatori con i colori del Celtic Druid Castenaso) con un personale di 15’40” sui 5000 e un’agenda piena di impegni agonistici, almeno una cinquantina di gare all'anno tra corse su strada e prove in pista, abbia messo qualcosa di veramente suo in quel Claudio Seregni che riempie con le sue paranoie le pagine del romanzo. A meno che, come spesso succede con le passioni, non si tratti di una versione del classico rapporto di amore-odio.
«Io affido sempre una parte di me al mio io narrante», spiega sorridendo Fattori. «Il fatto è che poi lo lascio andare alla deriva, e la storia diventa sua. Il gioco è questo: non fare dei diari, ma neppure delle sceneggiature. Cercare un linguaggio che non sia troppo sterile, ma nemmeno troppo intimista. Cerco di scrivere su questi binari: mai ombelicale, mai distaccato da quello che racconto. L’atletica c'entra, naturalmente. È una parte della mia vita. Ho iniziato a correre ancora bambino, a nove anni, e ho smesso a quattordici per poi riprendere a ventiquattro e non smettere più. Ho corso da piccolo, poi da amatore evoluto. E nel libro in qualche modo ho riempito lo spazio che non ho vissuto, atleticamente parlando. In questo senso si può dire che non sia assolutamente autobiografico: ho scavato negli anni che mi mancano, nella vita che non ho vissuto. Il mio protagonista è stato forte anche da junior, io non lo sono mai stato. Però ho una base discreta: storicamente ho visto nascere il podismo nella mia terra, e quando ho ripreso ne ho vissuto uno dei momenti più esaltanti. Però, quando si è trattato di costruire il personaggio, l'ho scelto più forte di me, dal punto di vista dei risultati. Già che c’ero...»
Un’ora di corsa al giorno è un sacrificio che si fa ancora volentieri. Saverio Fattori quello spazio continua a trovarlo, a ritagliarselo. Della corsa ha imparato a conoscere bene virtù e vizi. «La amo, certo. Ma spesso mi capita di analizzarla con un po’ di cattiveria. Mi dà fastidio quell’esasperato buonismo che aleggia intorno alla disciplina. Diciamolo: correre è fatica. E non mi piacciono certi tic tipici dell’ambiente, le giustificazioni pre-gara, il mettere avanti le mani, quelli che dicono “oggi mi metto il numero ma non tiro...”. Sì, l’ambiente credo di conoscerlo bene. Anche se, lo ripeto, un romanzo va da sè, e io quando scrivo mi metto in gioco solo fino a un certo punto».
C’è un altro aspetto che nel suo romanzo Fattori descrive “da fuori”, ma mostrando conoscenza del problema: l’ombra del doping sull’atletica. «Ci ho lavorato prendendo come testo di riferimento il libro di Carlo Donati “Campioni senza valore”. E assorbendo i racconti di un culturista che ho conosciuto, uno che parlava di “roba fredda” rapportandosi alle sostanze stimolanti. Come mi pongo di fronte al problema? Non sono nè inconsapevole, nè colluso. Non ho fatto un libro da cittadino indignato, nè un diario sul doping. D’altra parte faccio romanzi, non sono un giornalista e non pretendo di fare inchieste. Mi metto nella prospettiva di uno che si dopa, ma lo faccio tenendo la giusta distanza per cercare di capire».
Claudio Seregni è un personaggio freddo, chiuso in sè stesso, ma in fondo all’opera di Fattori trova una chiave per cambiarsi la vita. «Quando inizia a farsi domande, diventa meno forte come atleta, ma allo stesso tempo diventa più umano. L’atleta, ad alto livello, deve essere impermeabile. Alla depressione, ai cambi d’umore, agli imprevisti. Il mio protagonista all’inizio è un atleta quasi di vertice, alla fine ha una chance per imparare a vivere. Se in “Acido Lattico” si cerca una chiave di ottimismo, forse è questa».
Le domande, d’altra parte, continua a farsele anche Saverio Fattori. L’atleta, il runner. «Tantissime. Perché continuo a correre, ad allenarmi? Ma ho scelto di tenermi sempre un’ora della giornata per l‘atletica. Non cambierò idea».


Il romanzo di Fattori
Quando l’atleta si fa domande

Claudio Seregni è un mezzofondista di vertice nel pieno della maturità atletica. Razzista per terrore del diverso, fidanzato per noia, vive la corsa come un mondo in cui proteggersi da quello fuori. Lo ossessionano i fallimenti, e passa il tempo libero cercando quelli altrui, “collezionando” su internet o su vecchie riviste le storie di promesse non mantenute dell’atletica. Sogna una chiamata olimpica e un approccio definitivo al professionismo. Per agguantarli rinuncia a qualsiasi etica, iniziando a sperimentare nuove combinazioni farmacologiche che lo fanno correre meglio e vivere peggio. Chattando in internet si imbatte in Clara, giovane promessa non mantenuta del mezzofondo passata a studi umanistici. Scopre di avere con lei molte affinità. Decide di conoscerla, ma prima di incontrarsi Clara si toglie la vita. Quasi senza accorgersene, ma drasticamente, Claudio alza la testa. Comincia a farsi domande mentre corre. E a perdere terreno in pista.
ACIDO LATTICO - di Saverio Fattori - Gaffi Editore - 180 pagine - 11 euro


(“Il Domani di Bologna”, domenica 10 agosto 2008)

mercoledì 6 agosto 2008

GIAMPAOLO BORGHINI SU ACIDO

Giampaolo Borghini è un ex Quindicino, colonna ferrarese, (www.iquindici.org) nel 2007 è entrato fra i cinque finalisti del concorso "Nuove Storie Ferraresi", cui è seguita la pubblicazione di una antologia per Corbo Editore. Di recente è uscito per i tipi della Davide Zedda editore con il romanzo IL TANGO DELL'ANGELO PERDUTO, una storia amara che parla dell'Argentina dei militari. E, di sponda, anche dell'Italia, che non è stata degna di un colpo di stato. Ma che per il resto non si è fatta mancare nulla. La cosa non è sfuggita a Giuseppe Genna, sempre onniscente, liquido, che ne ha estrapolato una parte e proposta su Carmilla.

http://www.carmillaonline.com/archives/2008/06/002695.html#002695

Forse il Borghini è stato troppo buono con Acido. Boh.


"Acido Lattico", come gli altri libri che hai scritto e, accidenti, non ancora tutti pubblicati, ti prende e ti incatena, in un crescendo che non ti lascia nemmeno dopo averlo finito. Il doping ne esce fotografato in modo spietato, senza sconti, ma essenzialmente per quello che è. La condanna è implicita ma lasciata al lettore, non sembra interessarti quanto, invece, ti interessa alzare il coperchio della pentola e mostrare quanta merda ribolle, sotto quel coperchio. In fondo è tutto un problema di soldi, prestigio, fama, un sentirsi qualcuno ad ogni costo. In un mondo dove sei qualcuno solo se te lo dice qualcun'altro, solo se compari in TV, sei sui giornali, la gente ti riconosce per la strada. E allora si inizia, raggiunti i propri limiti naturali, insufficienti per l'eccelenza, ad andare oltre, a bombardarsi con qualsiasi cosa, ad accettare di fare da cavia pur di avere una possibilità, anche piccola. In Seregni Claudio, però, tutto diventa fine a se stesso: i suoi tempi, il suo fisico come un'opera d'arte vivente. La gara non gli interessa più, non serve più, sbriciolare i propri limiti serve, ad ogni costo. Un concetto estetico del doping che è lo stesso di "Troppi Paradisi", di Walter Siti. In cui il protagonista, con il nome dell'autore, si innamora di un ragazzo palestrato, un escort di lusso, a cui il testorone e derivati servono per mantenere l'apparenza di un corpo perfetto. Cos'è il doping se non lo specchio della nostra società? Non a caso Siti in Troppi Paradisi si occupa della società occidentale.
E poi parli di una piaga forse peggiore del doping nel professionista, che sceglie, almeno oggi, di farlo, sapendo, o almeno immaginando, a cosa va in contro. L'aspetto peggiore del doping è quello dell'atleta occasionale, del corridore della maratona di New York, dove il doping è preso come un gioco, come un rimedio per gli anni che passano, come un modo per gareggiare senza preparazione. Mentre è solo un modo per distruggersi per niente, ma se non competi, se non togli una fetta di notorietà a nessuno, ti puoi schiantare con tutto quello che vuoi. Di te essere umano, non frega niente a nessuno. Di te, possibile medaglia alle olimpiadi, frega a tutti, ma solo finché sei una possibile medaglia. Subito dopo, quando smetti di esserlo, torni nel primo gruppo.
Un altro merito del tuo libro, riconoscibile anche negli altri che ho letto è la capacità di gettarti davanti proprio il nostro mondo, anche qui la società occidentale. La casa, il campo di allenamento di Seregni, la poca umanità che incontra, sono le nostre città, le nostre strade, i nostri argini. Il suo odio xenofobo è l'odio di tanti, troppi, che senza sapere, senza conoscere, odiano, ma solo per avere la sensazione di essere vivi.
Acido è davvero un grande libro, per me. Sicuramente avrà fortuna. Tanto prima o poi i meriti vengono fuori, certo prima o poi.

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sabato 2 agosto 2008

LA PREFAZIONE DI DANIELE MENARINI PER ACIDO LATTICO

Nei mesi scorsi, prima dell’uscita di Acido, erano usciti sul mensile Correre sei pezzi di un ciclo-saga, identificato come GENERAZIONE PERDUTA. Sei estrapolazioni di Acido che Daniele (co-direttore della rivista) aveva appoggiato con grande coraggio. Perché coraggio? Intanto va detto che come tutti i grandi appassionati di atletica Daniele soffre della deriva di questo sport, di questa malattia inarrestabile iniziata alla fine degli anni Novanta e che non perdona. Crisi di vocazione, i giovani non sono arrivati a dare il naturale ricambio alle generazioni di ferro ( la classe ’71 è stata l’ultima formidabile ) è il nostro movimento è invecchiato. L'attività federale su pista è in coma artificiale. La corsa su strada sopravvive di over – 35 che non si rassegnano all’invecchiamento, che fanno mezze maratone, maratone, doppie maratone nel deserto, ultramaratone, ma non portano il nipotino al campo, come ebbe ad affermare tal Luciano Gigliotti. Chi scrive è preda di questa patologia, Peter Pan atletico all’otto per cento di massa magra che se non corre i Diecimila sotto i 35 minuti va in depressione. In ogni gara combatto creature simili a me. Gente vecchia e in forma, nessuna faccia sconosciuta in assenza di rughe corre davanti a me. La base del moviomento atletico sotto è gelatinosa. Fragile. Questo paese non sa costruire nulla, affida tutto al miracolo di un talento fuori controllo. Aspetta ancora un Pietro Mennea che fa a gara con i motorini per le strade di Barletta. La nazione di Padre Pio non sa fare programmazione. Aspetta il miracolo e si è dimenticata dei Giochi della Gioventù. Alleva pulcini di abbonati a Sky. Il coraggio di Daniele? Io quando scrivo sono sempre molto amaro. Scrivo noir, faccio speculazione su aspetti negativi. Perché procedere su questa traccia anche parlando di un gesto così sano e naturale come quello della corsa? Perchè “sporcare” anche una pratica così positiva? Non tutti i lettori di Correre avranno gradito il clima degli scritti. Nessuna protesta che io sappia. Forse un moderato imbarazzo che si è fatto silenzio. Giorgio Pozzi, editore di Fernadel, ( scopritore di talenti letterari come Gianluca Morozzi, Grazia Verasani, Paolo Nori ) e podista in quel di Ravenna, ebbe a scrivermi dopo avermi letto di Correre “ Ho letto il tuo articolo, che è veramente "nero", almeno nello stato
d'animo. Però non ho capito bene che cosa volevi dimostrare…”
Non lo so cosa volevo dimostrare. Almeno non lo sapevo. La prefazione di Daniele Menarini su Acido è servita a chiarirmi le idee. A spiegarmi le MIE idee…

Eccola:

Acido Lattico – Prefazione di Daniele Menarini, condirettore di Correre

Per apprezzare fino in fondo il libro che vi accingete a leggere, vi consiglio di eseguire la seguente ricetta di corsa. Trovate un giorno in cui non avete molto da fare. Meglio se anche quelli successivi sono vuoti. Recatevi al campo di atletica. Effettuate il riscaldamento correndo, 20 minuti possono bastare. Poi percorrete un giro di pista più forte che potete. Lasciate passare 5 minuti e percorretene un altro, sempre al massimo delle vostre possibilità. Già in questo secondo turno di 400 metri toccherete con mano quella che il Perozzi, in Amici miei, chiamava “la constatazione del nostro nulla”, ma non è finita. Lasciate passare altri 20 minuti e ripetete l’operazione: un giro forte, cinque minuti di riposo, un altro giro forte. Dopo di che non dovrete stupirvi di quello che vi capiterà: il mal di testa, il vomito, le formiche alle gengive, il dolore che nei muscoli prende il posto della fatica. Passerete qualche giorno in cui farete fatica a fare tutto, anche sedervi o scendere le scale. Come se vi avessero picchiato o investito con l’auto. Eppure, riscaldamento compreso, avrete percorso non più di 5 chilometri.
È l’acido lattico, bellezza. Pane pressoché quotidiano del mezzofondista veloce.

Adesso possiamo parlare del protagonista.
Claudio Seregni, la persona, non esiste. Seregni Claudio, l’atleta, sì.
Per gli allenatori gli atleti sono sempre cognome e nome. Così è più facile fare le tessere in federazione, archiviare gli allenamenti, aggiornare la rubrica telefonica. Sono concreti in tutto, gli allenatori, anche nel linguaggio: « hai fatto sesto agli italiani assoluti », dice Roberto a un certo punto.
Seregni è un prototipo preciso: professione, atleta evoluto.
Il mezzofondo italiano ne ha avuti a bizzeffe, fino all’inizio degli anni ’90, per un propizio sovrapporsi di incremento demografico, buona promozione, circolazione della ricchezza in termini di sponsorizzazioni, visibilità ai grandi risultati negli appuntamenti importanti.
Tutto questo, da un certo punto in poi, non fu più sufficiente. Nell’atletica non ci sono barriere doganali a protezione della mediocrità. Non c’è una C1 o una A2, e anche i campionati italiani sono poco più che un esercizio retorico.
Quell’anello in materiale sintetico, spesso incastrato in periferie industriali in disarmo, è lì e altrove al tempo stesso. Un Aleph rudimentale che si ripete analogo in ogni angolo di mondo e annulla le distanze, perché rende confrontabili i tempi e le misure. Ogni volta che si va in pista e si schiaccia un cronometro ci si infila in una competizione con possibili milioni di avversari che si contendono lo stesso sogno di vittoria.
Nel nostro mondo, oggi, la preoccupazione è perdere qualità di vita. Diventare poveri, deportati a percorrere all’inverso il viaggio che ha riempito di motivazione la vita difficile dei genitori dei quarantenni di oggi, quelli che spostano sempre un po’ più in là il confine dell’adolescenza.
Chi viene dall’atletica non è che non abbia paura. È semplicemente abituato alla paura.
L’atletica è globale da sempre, multietnica dal 1968. Si parla tutti nel mondo una stessa lingua di numeri, che non ammette opinione. Non si può disquisire di Maradona che è meglio di Pelè. Non si può fare lo scienziato da bar. I numeri significano maggiore o minore, “più” qualche cosa, “più di” qualcuno, sempre. Più veloce o, per quello che di solito ci riguarda, più lento. C’è sempre qualcuno di cui si è più lenti. Così, alla lunga, ci si riduce ad accontentarsi di avere almeno qualcuno di cui essere più veloci. Quel che resta del sogno.

Claudio è uno che ha deciso di non accontentarsi di quel che resta.
È un’automobile di media cilindrata in un’autostrada a due corsie. Odia i veicoli lenti dei nuovi runner, che intasano i media con le loro maratone di New York e le “ultra” nel deserto. Soffre quando a dargli gli abbaglianti sono i velocissimi bolidi kenioti, etiopi o nordafricani, che infestano le sue corse, dai campionati mondiali a quelle di paese. Corpi nati per correre con dentro un cervello che ha ancora fame.
Ha deciso di osare l’inosabile: percorrere il sogno fino in fondo. Così si ritrova appeso a una parete sempre più levigata e ostile, mano a mano che sale negli allenamenti, mano a mano che procedono i giorni e la Scadenza, Pechino, si avvicina. Nudo contro il gelo che aumenta dentro. Nudo come sono sempre gli atleti, costretti a coprirsi di cinismo. Non sono gli esami che non finiscono mai a riempire di vuoto la sua vita, ma la preparazione per un esame che non arriverà, se non per altri, come i Tartari di Buzzati. Inchiodato dalle cambiali di aspettative che ripongono in lui e che non può pensare di non onorare, inchioda alla parete di casa i ritagli e le immagini della generazione perduta di talenti che lo hanno preceduto nello smarrimento e le cui vicende si ostina a cercare di ricostruire.
Non sa che così facendo comincerà a distruggere Seregni Claudio e a ritrovare Claudio Seregni.
Perché l’atletica, anche in versione deforme, conserva e offre l’opportunità di un risultato impagabile: imparare a perdere.

Acido Lattico non è la prima incursione narrativa nel terreno corsa–doping. C’è almeno un precedente di discreto lustro in A perdifiato di Mauro Covacich. A maglie larghe si può risalire fino a Il Sole rosso, sorta di thriller con finale olimpico in cui si era cimentato Gelindo Bordin. Rispetto ai precedenti, Saverio Fattori affonda il bisturi del realismo, rivelando un archivio personale molto attrezzato di letture ed esperienze da campo, in parte concentrate in quel microcosmo di entusiasmo che si accese in Emilia – Romagna tra la seconda metà degli anni ’80 e la prima dei ’90 e che è documentato nelle annate della rivista regionale Atletica Sprint.
La narrazione si appoggia di frequente al dato reale, dal quale la separa il sottile confine dei riferimenti senza nomi e dei medici chiamati con l’asterisco. Una scrittura che gioca continuamente di sponda con le pagine scure dello sport italiano e mondiale, che emergono in forma di aneddoti. Veri, dannatamente veri, contenuti in quel dossier oggi introvabile che è Campioni senza valore, di Sandro Donati.




Milano, 16 giugno 2008

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