sabato 2 agosto 2008

LA PREFAZIONE DI DANIELE MENARINI PER ACIDO LATTICO

Nei mesi scorsi, prima dell’uscita di Acido, erano usciti sul mensile Correre sei pezzi di un ciclo-saga, identificato come GENERAZIONE PERDUTA. Sei estrapolazioni di Acido che Daniele (co-direttore della rivista) aveva appoggiato con grande coraggio. Perché coraggio? Intanto va detto che come tutti i grandi appassionati di atletica Daniele soffre della deriva di questo sport, di questa malattia inarrestabile iniziata alla fine degli anni Novanta e che non perdona. Crisi di vocazione, i giovani non sono arrivati a dare il naturale ricambio alle generazioni di ferro ( la classe ’71 è stata l’ultima formidabile ) è il nostro movimento è invecchiato. L'attività federale su pista è in coma artificiale. La corsa su strada sopravvive di over – 35 che non si rassegnano all’invecchiamento, che fanno mezze maratone, maratone, doppie maratone nel deserto, ultramaratone, ma non portano il nipotino al campo, come ebbe ad affermare tal Luciano Gigliotti. Chi scrive è preda di questa patologia, Peter Pan atletico all’otto per cento di massa magra che se non corre i Diecimila sotto i 35 minuti va in depressione. In ogni gara combatto creature simili a me. Gente vecchia e in forma, nessuna faccia sconosciuta in assenza di rughe corre davanti a me. La base del moviomento atletico sotto è gelatinosa. Fragile. Questo paese non sa costruire nulla, affida tutto al miracolo di un talento fuori controllo. Aspetta ancora un Pietro Mennea che fa a gara con i motorini per le strade di Barletta. La nazione di Padre Pio non sa fare programmazione. Aspetta il miracolo e si è dimenticata dei Giochi della Gioventù. Alleva pulcini di abbonati a Sky. Il coraggio di Daniele? Io quando scrivo sono sempre molto amaro. Scrivo noir, faccio speculazione su aspetti negativi. Perché procedere su questa traccia anche parlando di un gesto così sano e naturale come quello della corsa? Perchè “sporcare” anche una pratica così positiva? Non tutti i lettori di Correre avranno gradito il clima degli scritti. Nessuna protesta che io sappia. Forse un moderato imbarazzo che si è fatto silenzio. Giorgio Pozzi, editore di Fernadel, ( scopritore di talenti letterari come Gianluca Morozzi, Grazia Verasani, Paolo Nori ) e podista in quel di Ravenna, ebbe a scrivermi dopo avermi letto di Correre “ Ho letto il tuo articolo, che è veramente "nero", almeno nello stato
d'animo. Però non ho capito bene che cosa volevi dimostrare…”
Non lo so cosa volevo dimostrare. Almeno non lo sapevo. La prefazione di Daniele Menarini su Acido è servita a chiarirmi le idee. A spiegarmi le MIE idee…

Eccola:

Acido Lattico – Prefazione di Daniele Menarini, condirettore di Correre

Per apprezzare fino in fondo il libro che vi accingete a leggere, vi consiglio di eseguire la seguente ricetta di corsa. Trovate un giorno in cui non avete molto da fare. Meglio se anche quelli successivi sono vuoti. Recatevi al campo di atletica. Effettuate il riscaldamento correndo, 20 minuti possono bastare. Poi percorrete un giro di pista più forte che potete. Lasciate passare 5 minuti e percorretene un altro, sempre al massimo delle vostre possibilità. Già in questo secondo turno di 400 metri toccherete con mano quella che il Perozzi, in Amici miei, chiamava “la constatazione del nostro nulla”, ma non è finita. Lasciate passare altri 20 minuti e ripetete l’operazione: un giro forte, cinque minuti di riposo, un altro giro forte. Dopo di che non dovrete stupirvi di quello che vi capiterà: il mal di testa, il vomito, le formiche alle gengive, il dolore che nei muscoli prende il posto della fatica. Passerete qualche giorno in cui farete fatica a fare tutto, anche sedervi o scendere le scale. Come se vi avessero picchiato o investito con l’auto. Eppure, riscaldamento compreso, avrete percorso non più di 5 chilometri.
È l’acido lattico, bellezza. Pane pressoché quotidiano del mezzofondista veloce.

Adesso possiamo parlare del protagonista.
Claudio Seregni, la persona, non esiste. Seregni Claudio, l’atleta, sì.
Per gli allenatori gli atleti sono sempre cognome e nome. Così è più facile fare le tessere in federazione, archiviare gli allenamenti, aggiornare la rubrica telefonica. Sono concreti in tutto, gli allenatori, anche nel linguaggio: « hai fatto sesto agli italiani assoluti », dice Roberto a un certo punto.
Seregni è un prototipo preciso: professione, atleta evoluto.
Il mezzofondo italiano ne ha avuti a bizzeffe, fino all’inizio degli anni ’90, per un propizio sovrapporsi di incremento demografico, buona promozione, circolazione della ricchezza in termini di sponsorizzazioni, visibilità ai grandi risultati negli appuntamenti importanti.
Tutto questo, da un certo punto in poi, non fu più sufficiente. Nell’atletica non ci sono barriere doganali a protezione della mediocrità. Non c’è una C1 o una A2, e anche i campionati italiani sono poco più che un esercizio retorico.
Quell’anello in materiale sintetico, spesso incastrato in periferie industriali in disarmo, è lì e altrove al tempo stesso. Un Aleph rudimentale che si ripete analogo in ogni angolo di mondo e annulla le distanze, perché rende confrontabili i tempi e le misure. Ogni volta che si va in pista e si schiaccia un cronometro ci si infila in una competizione con possibili milioni di avversari che si contendono lo stesso sogno di vittoria.
Nel nostro mondo, oggi, la preoccupazione è perdere qualità di vita. Diventare poveri, deportati a percorrere all’inverso il viaggio che ha riempito di motivazione la vita difficile dei genitori dei quarantenni di oggi, quelli che spostano sempre un po’ più in là il confine dell’adolescenza.
Chi viene dall’atletica non è che non abbia paura. È semplicemente abituato alla paura.
L’atletica è globale da sempre, multietnica dal 1968. Si parla tutti nel mondo una stessa lingua di numeri, che non ammette opinione. Non si può disquisire di Maradona che è meglio di Pelè. Non si può fare lo scienziato da bar. I numeri significano maggiore o minore, “più” qualche cosa, “più di” qualcuno, sempre. Più veloce o, per quello che di solito ci riguarda, più lento. C’è sempre qualcuno di cui si è più lenti. Così, alla lunga, ci si riduce ad accontentarsi di avere almeno qualcuno di cui essere più veloci. Quel che resta del sogno.

Claudio è uno che ha deciso di non accontentarsi di quel che resta.
È un’automobile di media cilindrata in un’autostrada a due corsie. Odia i veicoli lenti dei nuovi runner, che intasano i media con le loro maratone di New York e le “ultra” nel deserto. Soffre quando a dargli gli abbaglianti sono i velocissimi bolidi kenioti, etiopi o nordafricani, che infestano le sue corse, dai campionati mondiali a quelle di paese. Corpi nati per correre con dentro un cervello che ha ancora fame.
Ha deciso di osare l’inosabile: percorrere il sogno fino in fondo. Così si ritrova appeso a una parete sempre più levigata e ostile, mano a mano che sale negli allenamenti, mano a mano che procedono i giorni e la Scadenza, Pechino, si avvicina. Nudo contro il gelo che aumenta dentro. Nudo come sono sempre gli atleti, costretti a coprirsi di cinismo. Non sono gli esami che non finiscono mai a riempire di vuoto la sua vita, ma la preparazione per un esame che non arriverà, se non per altri, come i Tartari di Buzzati. Inchiodato dalle cambiali di aspettative che ripongono in lui e che non può pensare di non onorare, inchioda alla parete di casa i ritagli e le immagini della generazione perduta di talenti che lo hanno preceduto nello smarrimento e le cui vicende si ostina a cercare di ricostruire.
Non sa che così facendo comincerà a distruggere Seregni Claudio e a ritrovare Claudio Seregni.
Perché l’atletica, anche in versione deforme, conserva e offre l’opportunità di un risultato impagabile: imparare a perdere.

Acido Lattico non è la prima incursione narrativa nel terreno corsa–doping. C’è almeno un precedente di discreto lustro in A perdifiato di Mauro Covacich. A maglie larghe si può risalire fino a Il Sole rosso, sorta di thriller con finale olimpico in cui si era cimentato Gelindo Bordin. Rispetto ai precedenti, Saverio Fattori affonda il bisturi del realismo, rivelando un archivio personale molto attrezzato di letture ed esperienze da campo, in parte concentrate in quel microcosmo di entusiasmo che si accese in Emilia – Romagna tra la seconda metà degli anni ’80 e la prima dei ’90 e che è documentato nelle annate della rivista regionale Atletica Sprint.
La narrazione si appoggia di frequente al dato reale, dal quale la separa il sottile confine dei riferimenti senza nomi e dei medici chiamati con l’asterisco. Una scrittura che gioca continuamente di sponda con le pagine scure dello sport italiano e mondiale, che emergono in forma di aneddoti. Veri, dannatamente veri, contenuti in quel dossier oggi introvabile che è Campioni senza valore, di Sandro Donati.




Milano, 16 giugno 2008

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