domenica 24 agosto 2008

GIROLAMO DE MICHELE SU ACIDO (LIBERAZIONE)

Girolamo De Michele è redattore di Carmilla, e-magazine diretto da Valerio Evangelisti, tra i più seguiti del web (www.carmillaonline.com). Scrive di filosofia e critica letteraria su diversi giornali, e ha pubblicato saggi di filosofia e ricerca storica. Per Einaudi Stile Libero sono usciti i suoi romanzi TRE UOMINI PARADOSSALI (2004) e SCIROCCO (2005) e il recentissimo LA VISONE DEL CIECO.

La rece di sotto è uscita su Liberazione di venerdì 22 agosto 2008.


«Centoventi uova sbattute al muro, solo quelle che non si rompono diventano pulcini di campione. Il resto è frittata, iscritti alla maratona di New York nelle mani di astuti Tour Operator». È questa l’impietosa istantanea dello sfondo su cui galleggia la punta mediatica dell’atletica agonistica secondo Saverio Fattori, giunto con Acido lattico (Gaffi, 2008, 158 pp., € 11,00) alla sua terza prova, dopo l’esordio di Alienazioni padane e il feroce ritratto degli anni Ottanta di Chi ha ucciso i Talk Talk?
Scrittore “informato dei fatti”, corridore amatoriale («non va né piano né forte. Va»), Fattori adotta alcuni stilemi tipici del nuovo neo-realismo dell’ultima generazione letteraria (la situazione dispersiva, le relazioni precarie, la forma-passeggiata) per raccontare la vita risucchiata dall’«inferno della perfezione inutile» di Claudio Seregni, l’io narrante che cerca l’evasione dalla medietà insignificante della propria esistenza nella realizzazione di un corpo da olimpiadi. La scelta di questo io narrante che non può permettersi codici etici, che accetta senza remore la spirale prestazione-doping può sembrare spiazzante, soprattutto quando siamo costretti, tirati dentro il romanzo, a confrontarci con la sua mentalità fascistoide negli scampoli di vita quotidiana, ma soprattutto nella dimensione agonistica: «È profondamente ingiusto che un atleta si ammali. Il suo organismo ha retto e riprodotto prestazioni fuori dalla norma e non può cedere minato dagli stessi agenti patogeni che debilitano l’umanità media». Una mentalità adeguata all’ambiente sportivo irritato dalla supremazia degli atleti di colore che abbattono i record, ma non sono amati dagli sponsor: «Vanno come treni, ma non s’impigliano nell’immaginario collettivo. La gente fatica a distinguerli uno dall’altro. Per forza vincono, sono africani. Sono negri. O quasi». Ma proprio qui sta il punto di forza del romanzo: come nelle precedenti opere (ma anche in Cattedrale, una sorta di Bowling a Columbine in una fabbrica padana che sta pubblicando sulla rivista on line “Carmilla”), Fattori ha la capacità di portare il lettore in un mondo gelido, pervaso da relazioni deboli e fittizie, e lasciarlo senza il supporto di una morale consolatoria o di un finale edificante. La costruzione di un corpo perfetto ha come prezzo la recisione delle relazioni affettive, il disinteresse per l’altro, la rinuncia al piacere, la progressiva crescita della paranoia (uno dei topos narrativi di Fattori): un mondo alienato, popolato da alienati, prodotto da relazioni e pratiche alienanti. Un mondo postfordista, dove il paradigma della fabbrica, della precarietà, della guerra di tutti contro tutti si estende all’intera società, senza lasciare angoli immuni. Un mondo che non vediamo in televisione dietro i servizi sulle Olimpiadi, pervaso da una microfisica del controllo, della misurazione e quantificazione di ogni gesto, dell’occupazione della mente da parte di un’ossessione totalizzante: «L’atletica ha un potere narcotico. E si prende tutta la mia vita, il resto è corollario al punto centrale: il giorno della gara». Il mondo delle corse di provincia dietro l’illusione di una convocazione alle Olimpiadi, dei medici che utilizzano gli atleti come cavie - «Pechino 2008 è lastricata di pezzi di merda» - è il correlativo oggettivo di una realtà puntuamente descritta, ma anche allegoria potente della società del controllo, della pervasività di un micropotere che giunge sino alla vita stessa, e il cui artefice è il soggetto stesso, che passo dopo passo costruisce se steso con feroce determinazione: «L’espressione che più detesto è vado contro natura: L’adattamento all’usura organica aumenta la parte liquida del sangue e ammazza i globuli rossi. L’Epo ristabilisce il numero dei globuli rossi, visto che la natura lasciata sola fa cazzate, avara com’è». L’Epo è il terzo farmaco più diffuso dopo l’aspirina e il valium: una realtà che non si spiega con i soli atleti professionisti, che coinvolge praticanti semi-amatoriali, corridori della domenica, palestrati d’ogni tipo. «Qualunque persona con un’intelligenza media sa che un atleta professionista di uno sport serio è praticamente un tossicodipendente», afferma il narratore, lasciando intendere che per gli ultimi corridori “puliti” bisogna risalire ai tempi di Donato Sabia e Stefano Mei: ma dietro i grandi atleti, risultato finale di una pratica medica accettata ancor più che tollerata, c’è la massa delle cavie che sgomitano all’interno di un mondo che concepisce la pratica sportiva solo come selezione senza appello per quelli che «ai primi ostacoli si sono disgregati, non hanno retto alle piccole delusioni dei cambi di categoria, agli infortuni dovuti all’aumento dei carichi di lavoro, ai raduni collegiali. Non hanno voluto recidere legami di amicizia, amorosi o familiari. Sul piatto hanno lasciato pochi resti e hanno mollato». A qualcuno è andato anche peggio: ad esempio a Fulvio Costa, giovane mezzofondista di talento «che nell’82 crepò in un letto d’ospedale dopo il morso d’un cane, qualche giorno dopo l’antitetanica. Contemporaneamente qualcuno iniziava cavalcate mondiali e olimpiche. Svuotati di sangue proprio per reintrodurselo arricchito, o comunque privo delle tossine di mesi di allenamenti. Pulito. Troppo pulito. Ripulito anche di anticorpi. Qualcuno crepava e qualcuno volava, braccia segaligne al cielo, occhi nerissimi, spiritati, il solito delirio di onnipotenza». Chi ha orecchie per intendere può farlo: per gli altri c’è la favola del campione cresciuto a pastasciutta e dei medici che giungono ai vertici dello sport e dell’Università: «La valigetta conteneva ampolle sacre, sangue benedetto. A pochi giorni dalla gara il miracolo si compiva nel rito della trasfusione. L’emoglobina accendeva di nuovo le cellule che impazzivano ordinate. Quattro, cinque giorni dopo, i media avrebbero onorato un nuovo campione. Il nuovo campione con le medaglie al collo avrebbe ringraziato i carboidrati, le lasagne della mamma».

Leggi la recensione

0 Commenti:

Posta un commento

Iscriviti a Commenti sul post [Atom]

<< Home page