martedì 19 agosto 2008

TRACCIA FANTASMA DI ACIDO SU "IL GIORNALE"

Stefania Vitulli de "Il giornale" mi ha chiesto un racconto per l'edizione domenicale, hanno iniziato un ciclo di narrazioni sul tema fisso milano-noir. Nelle domeniche precedenti erano uscite cose di Ferrario, Matrone, Montolli, Roversi. Ho pensato subito a un racconto costola di Acido. Una storia fuoriuscita da quelle pagine. Non poteva essere che così, sono ancora "sotto Acido". Il racconto è corredato dall'immagine di un'opera originale di Barbara Nahmad, pittrice milanese molto interessante. Ha già esposto al PAC di Milano, Londra, Berlino, Rotterdam, Tel Aviv.

Questo di sotto è il racconto uscito domenica 10 agosto. Lo hanno intitolato "DELITTO AL FOTOFINISH".

Un asciugamano copre le spalle del vincitore, qualcuno gli mette in testa un cappellino con il logo di uno sponsor. È un atleta bianco, quasi pallido, nessuna vena intarsia la fibra muscolare, la pelle non è carta velina su nervi pronti a generare elettricità. Un esemplare di umanità media ha addome-sticato la pattuglia di maratoneti africani. Nei primi chilometri ha stupito punteggiando la nuvola nera di bianco, il telecronista con voce isterica ha ipotizzato un miracolo, temendo il troppo ardire. Poi il sogno si è fatto concreto, i riferimenti cronometrici di assoluto livello mondiale reiterati a o-gni chilometro. Senza cedimenti. Allo scoccare delle due ore precise di corsa ha lasciato i due etiopi compagni di avventura. Si è involato verso Piazza Duomo come un demonio. Otto minuti e trentatrè secondi di solitudine cristallina. La vertigine della perfezione atletica. La fantascienza della norma-lità. È quello che la giornalista bionda voleva. Un vincitore bianco che parla italiano. Stanca di gaz-zelle degli altipiani dall’inglese incerto e dalla semplicità disarmante. L’audience pretende la com-plessità occidentale. Le parolacce dei motociclisti ragazzini o il semianalfabetismo di calciatori mi-liardari. Il nostro immaginario lascia scorrere i volti degli atleti neri senza trattenerli, non rimango-no impressionati nella pellicola. I loro tratti, i loro nomi… sembrano tutti uguali. La loro età, un mi-stero indefinibile che non incuriosisce. È una forma di razzismo atavico che nemmeno i condizio-namenti culturali riescono a espellere. Non c’è immedesimazione con il vincitore e i grandi sponsor stanno abbandonando l’atletica. Fanno imprese incredibili. Per forza. Sono africani. Andavano a scuola a piedi, niente autobus. Inseguiti dai leoni. Raggiunti dalla nostra ignoranza. Ci ricordano troppo la fame e la miseria che in Occidente è solo vergogna, nemmeno rabbia.
Le statue d’ebano fanno imprese fantascientifiche che solo gli addetti ai lavori riescono a compren-dere nella loro grandezza, ma non si impigliano nell’immaginario collettivo. Il loro gesto atletico è arte finita, non prevede sottotitoli, né giustificazioni di critici marchettari. Esige il silenzio. Nessuna epica affidata alla parola. E noi abbiamo bisogno di fruscio, rumori di fondo, di anedottica da Bar Sport. Non di sport. Era più forte Pelè o Maradona. Coppi o Bartali. Altro che pregiudizi. Dovreb-bero essere loro a ostentare superiorità. Per la nostra goffaggine. Per i nostri ventri flaccidi. Per le nostre beauty farm. Per le creme anticellulite. Per i personal trainer. Per la taglia quarantasei.
L’atleta bianco ha il viso affusolato e gli occhi neri che si perdono nel gorgo dei quarantadue chi-lometri corsi nell’hinterland milanese. Occhi neri che però luccicano, sopra due ipotesi di guance, risucchiate da estenuanti sedute di allenamento. Milano è una città astiosa, non sopporta i blocchi stradali, prende a colpi di clacson e offende anche i partecipanti più veloci, figurarsi i tapascioni che si trascinano per ragioni misteriose in quell’agonia inutile. Milano non comprende quella dispersio-ne di energia. Milano non ha pietà. Perché deambulare in mutande e canottiera sulle strade di una metropoli occidentale? Non ci sono i tapis roulant con televisore incorporato?
La giornalista bionda tira i cavi del microfono, dà ordini secchi ai tecnici RAI che la maledicono in silenzio. Pare innocua.

- Un risultato che ti proietta verso le prossime olimpiadi. Chi devi ringraziare?

- La mia famiglia che mi ha sempre sostenuto, mia moglie che aspetta un figlio. Il mio allenatore.


Che ne è della complessità occidentale? La fatica sana e assoluta dello sport aerobico ai massimi li-velli asciuga fisico e pensieri. Tutto è ridotto all’essenzialità. Alle sensazioni atletiche, alla pragma-ticità del cronometro. Tutto è pulizia, candore. Le variabili, le scorie del masochismo intellettuale sono dirottate da qualche parte nel buco del culo dell’universo. Lo sport professionistico ha bisogno di tranquillità. Di controllo. Ma qualcosa deve sempre inquinare le favole a lieto fine, sporcare la felicità. La giornalista bionda è perfida.


- Allenatore che di recente è stato sostituito.

- Nulla di personale. Ragioni tecniche.

- Non possiamo però ignorare la vicenda che ti ha coinvolto nei mesi scorsi…

- La mia società mi ha assicurato la massima fiducia. Sono stato completamente riabilitato. Anzi non sono stato mai in discussione come atleta e come persona.

- Ma le intercettazioni telefoniche… l’inchiesta della procura…

Il maratoneta sembra un furetto, la voce si rompe, l’emotività buca l’orgoglio, la tensione del dopo gara allenta, sembra tramortito e nervoso al tempo stesso. Non avevano concordato questa doman-da. Ricorda tutto in un flash di pochi attimi. Il pusher della palestra non sapeva nulla di atletica leg-gera. Pensava che l’unica maratona al mondo fosse quella di New York. I suoi commenti assurdi. Le iniezioni di GH così complicate da eseguire, gli effetti secondari del testosterone graditi alla mo-gliettina. Ricorda la sensazione di onnipotenza e forza ridotte a stracci quando il suo nome si è ma-terializzato nelle agenzie di stampa. Ricorda l’avviso dalla Procura, la carta bollata che è già colpe-volezza.
La giornalista stronza poteva evitare il tranello nel giorno della sua rinascita atletica. È uscito da un incubo, la sospensione cautelare della Federazione, un obbligo di dimora imposto dalla Procura. Ha sconfitto il senso di impotenza. La depressione che indebolisce l’organismo come nessun virus, che mina le difese immunitarie. Il baratro dell’umiliazione. Un atleta professionista ha bisogno di sere-nità. Non deve rispondere alla domande di un pubblico ministero. Le agenzie di stampa sintetizza-vano la sua tragedia in poche righe velenose che rimbalzavano di giornale in giornale. Fino ai TG. Aveva pensato a tutto in quei giorni. Anche al suicidio. Il silenzio del suocero, il suo primo fan, po-dista da mezzo secolo.
Gli amatori del suo paese di origine gli avevano dato la forza, lo invitavano a uscire e a riprendere gli allenamenti. Era stata dura raccogliere la concentrazione, l’abitudine alla fatica. La giornalista bionda è peggio delle ripetute in salita. È confuso, potrebbe annegare, ma di colpo riacquista lucidi-tà.

- Solo maldicenza. Non sono mai risultato positivo a nessun controllo. Ho subito l’affronto di una perquisizione in casa. Nemmeno le aspirine hanno trovato. Mi curo con l’omeopatia. Figuriamoci se vado a rovinarmi la salute.

Omeopatia. Fiori di Bach? Propoli? Per correre quarantadue chilometri quasi ai venti di media. Per recuperare tre allenamenti al giorno, duecentoventi chilometri alla settimana. Per battere keniani, etiopi.
Per vivere sereni.

www.ilgiornale.it/pag_pdf.php?ID=84133

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