IL PASSO DEL CAMMELLO SU ACIDO
IL PASSO DEL CAMMELLO è una piccola realtà di agitazione sociale e culturale questa recensione è stata postata nella sezione INVITO ALLA LETTURA sabato, 23 agosto 2008
Acido lattico
Gaffi Editore
“Un romanzo sul lato oscuro dello sport” a quanto pare, il che farebbe di Acido lattico una narrazione mossa da certa attualità. In effetti, la trama suggerirebbe questo. Claudio Seregni, protagonista assoluto, ha ventotto anni, una fidanzata-suppellettile, un desiderio insostenibile di gareggiare a Pechino, e un’angoscia ancora più insormontabile di fare fiasco. In più, è accompagnato anche da una xenofobia non da poco, che lo rende timoroso e guardingo verso qualunque sembianza di differenza. Le sue giornate sono abitate da allenamenti estenuanti e svariate miscele dopanti, nonché da una ricerca maniacale sulle mancate glorie dell’atletica leggera, su quegli sportivi più che promettenti la cui carriera è stata però segnata da un fallimento inaccettabile. Sulla rete conosce una di queste ex promesse, Clara, sospettata, ai tempi dell’agonismo, di emotrasfusione. Ma proprio quando riesce a strapparle un appuntamento per chiarirsi dei dubbi, lei mette fine alla sua esistenza con un suicidio non prevedibile, abbandonando Claudio all’impellenza dei suoi interrogativi costretti ormai a restare tali. La trama, qui sintetizzata in modo estremo, di fatto potrebbe dar ragione a quanti hanno collegato l’ultima opera di Fattori alle Olimpiadi di Agosto, e a tutto il carico di sport inquinato che l’evento – non solo quest’evento - si è trascinato dietro. Ma ad una lettura più sottile, ci si rende conto di quanto ciò significhi ridurre l’intenzione narrativa per me più sofisticata dell’autore, che è atleta a sua volta ma per passione, e che in più conosce molto bene l’ambiente della fabbrica. Differenza notevole. Va sottolineata. Un atleta professionista o amatoriale – quest’ultimo è spesso più alienato- , per quanto armato di ottima penna, non avrebbe potuto rendere la meraviglia di un noir finto-sportivo e molto qualcosa d’altro. Perché la storia che Saverio intreccia ha per pretesto il mondo della sua amata corsa, ma per materia d’indagine la deriva dell’individualismo massificato. La corrente contemporanea, che ci impone perfetti ed efficienti a qualunque costo, trova alimento e vivificazione in un immaginario fatto anche di magliette che diano un’appartenenza, podi su cui salire per due minuti a placar coscienze per anni, medaglie da appuntare e poi incorniciare per avvertire il placebo di un risultato raggiunto e da replicare quanto prima, se non da ottimizzare. Ma non solo. Mille e più sarebbero i paralleli da rintracciare, in ogni dimensione lavorativa, anche nelle aree più creative e in apparenza distanti dalle ricerca del record fine a se stesso, che è cosa deliziosamente anestetizzante. Dopotutto, qualunque occupazione è routinizzata, da intensificare, e diretta alla sola produzione di un qualcosa, sia essa medaglia, fatturato, credito: la catena di montaggio ci ha ormai fagocitato l’anima. Siamo uomini in concorrenza, dunque, non in convivialità. Ci nutriamo degli errori degli altri, li agogniamo quasi. E quando ci obblighiamo a una mèta, abbiamo spesso un comitato di contorno in cui sono limpidi ruoli e compiti finalizzati al piazzamento, ma non più una comunità in cui di lampante ci sia solo la condivisione in libertà dei propri movimenti. Divisione organizzata delle attività. Ciò conduce alle diffidenze che conosciamo: qualunque nuovo ingresso non richiesto rompe meccanismi e dispositivi sociali, crea una confusione poco gestibile e impegnativa, e allontana dalla politica del risultato. Pericolosissimo. Così, si distruggono i giocattoli, quelli economico-politici su tutti. Per questo, narrando in apparenza di sport dopato, Saverio disegna le reclusioni, sia manifeste che implicite, della società attuale, dipendente non solo per mezzo di sostanze, ma soprattutto per ricerca ossessiva di uniformità. Offre, quindi, una ricetta di probabile rottura e buona resistenza: correre, o fare qualunque altra cosa crei solo puro godimento. Pensando, però. Se possibile: ponendosi domande. Perché farlo privi di interrogativi equivale a marciare dritti, come i soldati. E ai nostri angoli, di questi, ce ne sono ormai anche troppi. (s.r.)
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Acido lattico
Gaffi Editore
“Un romanzo sul lato oscuro dello sport” a quanto pare, il che farebbe di Acido lattico una narrazione mossa da certa attualità. In effetti, la trama suggerirebbe questo. Claudio Seregni, protagonista assoluto, ha ventotto anni, una fidanzata-suppellettile, un desiderio insostenibile di gareggiare a Pechino, e un’angoscia ancora più insormontabile di fare fiasco. In più, è accompagnato anche da una xenofobia non da poco, che lo rende timoroso e guardingo verso qualunque sembianza di differenza. Le sue giornate sono abitate da allenamenti estenuanti e svariate miscele dopanti, nonché da una ricerca maniacale sulle mancate glorie dell’atletica leggera, su quegli sportivi più che promettenti la cui carriera è stata però segnata da un fallimento inaccettabile. Sulla rete conosce una di queste ex promesse, Clara, sospettata, ai tempi dell’agonismo, di emotrasfusione. Ma proprio quando riesce a strapparle un appuntamento per chiarirsi dei dubbi, lei mette fine alla sua esistenza con un suicidio non prevedibile, abbandonando Claudio all’impellenza dei suoi interrogativi costretti ormai a restare tali. La trama, qui sintetizzata in modo estremo, di fatto potrebbe dar ragione a quanti hanno collegato l’ultima opera di Fattori alle Olimpiadi di Agosto, e a tutto il carico di sport inquinato che l’evento – non solo quest’evento - si è trascinato dietro. Ma ad una lettura più sottile, ci si rende conto di quanto ciò significhi ridurre l’intenzione narrativa per me più sofisticata dell’autore, che è atleta a sua volta ma per passione, e che in più conosce molto bene l’ambiente della fabbrica. Differenza notevole. Va sottolineata. Un atleta professionista o amatoriale – quest’ultimo è spesso più alienato- , per quanto armato di ottima penna, non avrebbe potuto rendere la meraviglia di un noir finto-sportivo e molto qualcosa d’altro. Perché la storia che Saverio intreccia ha per pretesto il mondo della sua amata corsa, ma per materia d’indagine la deriva dell’individualismo massificato. La corrente contemporanea, che ci impone perfetti ed efficienti a qualunque costo, trova alimento e vivificazione in un immaginario fatto anche di magliette che diano un’appartenenza, podi su cui salire per due minuti a placar coscienze per anni, medaglie da appuntare e poi incorniciare per avvertire il placebo di un risultato raggiunto e da replicare quanto prima, se non da ottimizzare. Ma non solo. Mille e più sarebbero i paralleli da rintracciare, in ogni dimensione lavorativa, anche nelle aree più creative e in apparenza distanti dalle ricerca del record fine a se stesso, che è cosa deliziosamente anestetizzante. Dopotutto, qualunque occupazione è routinizzata, da intensificare, e diretta alla sola produzione di un qualcosa, sia essa medaglia, fatturato, credito: la catena di montaggio ci ha ormai fagocitato l’anima. Siamo uomini in concorrenza, dunque, non in convivialità. Ci nutriamo degli errori degli altri, li agogniamo quasi. E quando ci obblighiamo a una mèta, abbiamo spesso un comitato di contorno in cui sono limpidi ruoli e compiti finalizzati al piazzamento, ma non più una comunità in cui di lampante ci sia solo la condivisione in libertà dei propri movimenti. Divisione organizzata delle attività. Ciò conduce alle diffidenze che conosciamo: qualunque nuovo ingresso non richiesto rompe meccanismi e dispositivi sociali, crea una confusione poco gestibile e impegnativa, e allontana dalla politica del risultato. Pericolosissimo. Così, si distruggono i giocattoli, quelli economico-politici su tutti. Per questo, narrando in apparenza di sport dopato, Saverio disegna le reclusioni, sia manifeste che implicite, della società attuale, dipendente non solo per mezzo di sostanze, ma soprattutto per ricerca ossessiva di uniformità. Offre, quindi, una ricetta di probabile rottura e buona resistenza: correre, o fare qualunque altra cosa crei solo puro godimento. Pensando, però. Se possibile: ponendosi domande. Perché farlo privi di interrogativi equivale a marciare dritti, come i soldati. E ai nostri angoli, di questi, ce ne sono ormai anche troppi. (s.r.)
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2 Commenti:
Questo tipo di valutazioni mi danno forza. Ho temuto spesso che certi aspetti molto tecnici di Acido potessere allontanare i lettori non appassionati di sport dall'incubo di Acido, E' il mio solito pessimismo cosmico. Volevo condividere l'incubo con persone esterne all'ambiente. In realtà la descrizione di alcuni allenamenti ha un senso, voglio dire, l'io narrante è uno psicopatico, non può che essere meticoloso nell'indulgere nei particolari della preparazione.
che dire...
grazie
Come il tuo, altri libri piuttosto "tecnici"vanno incontro all'allontanamento che paventi: penso a "Partita a pugni" sul pugilato, e a "Noi due in fuorigioco" sul calcio. E' un peccato, perchè attraverso lo sport - e i modi di narrarlo - passano un bel po' di temi interessanti: il rapporto con l'autorità, per esempio, ma anche la dinamica del consumo. Pensa: ho rintracciato i *perchè* delle paranoie securitarie e i *come* delle derive contemporanee in questi e nel tuo, mentre in certa saggistica di materia ho incontrato il nulla in proposito. Vorrà dire qualcosa, no? Certi etichettamenti riduttivi servono solo a recludere autori, libri e lettori, e ad evitare la profonda lettura sociale che può essere recuperata proprio da quelle narrazioni in apparenza più tematiche. Grazie a te, dunque...
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